Sokushinbutsu (a volte viene usato anche l’espressione Sokushin-jōbutsu) significa letteralmente: 「Buddha nel suo stesso corpo」è un rituale buddhista che fu praticato fin dal Heian-jidai (794-1185) dai biku (termine giapponese che identifica i monaci buddhisti) che tramite un lungo processo chiamato: 「nyūjō」 terminavano il loro percorso con la morte predisponendo il corpo all’auto-mummificazione.
La prima fase prevedeva il trasferimento nella valle del bosco che veniva soprannominata: 「Senninzawa」che letteralmente significa: 「Palude degli immortali」il monaco lì si sottoponeva ad una lunga pratica di meditazione spirituale e un estenuante attività fisica, cibandosi esclusivamente di aghi e pigne di conifere, cortecce, noci ed occasionalmente anche di pietre e cristalli e tutto ciò che si riusciva a trovare nei boschi in modo tale da perdere quanta più massa grassa possibile, tale pratica perfezionata in Giappone venne chiamata: 「mokujikigyō」che letteralmente significa: 「nutrirsi di legno」.
La seconda fase che rappresentava il fulcro del rituale consisteva nel ridurre gradualmente l’assunzione di nutrimenti assumendo solo piccole quantità di corteccia, aghi e radici di conifere sempre mantenendo il corpo e la mente in attività attraverso esercizio fisico e meditazione. Inoltre all’approssimarsi dei 1.000 giorni il monaco incominciava a bere grandi quantità di tè a base di foglie di 「Toxicodendron vernicifluum」conosciuta come la pianta della lacca, l’ingestione di questo tè tossico provoca forte nausea, sudorazione e diuresi comportando un’ulteriore perdita di liquidi corporei, inoltre l’assunzione costante comportava un avvelenamento graduale anche dei tessuti epidermici trasformando il corpo in un repellente per gli insetti che non avrebbero potuto attaccare il corpo dopo la morte.
Conclusi i circa 1.000 giorni della seconda fase l’ultima passaggio prevedeva che il monaco si rinchiudeva in una piccola cripta fatta di pietra dove c’era spazio a sufficienza solo per mettersi in「kekkafuza」(identificato con il termine sanscrito in Padmasana tradotta in lingua italiana come: la posizione del loto) dopodiché la cripta veniva sigillata e il monaco aveva solo una piccola canna di bambù che gli permette di respirare restando in uno stato di: 「dhyāna」 (meditazione) mentre cantava il: 「nenbutsu」 (un mantra sul Buddha) accompagnato dalla campanella che aveva tra le mani e quando quest’ultima non suona più veniva rimossa la canna di bambù e sigillato anche l’ultimo spazio, dopo altri 1.000 giorni la cripta veniva riaperta ed il corpo del monaco analizzato per costatare la riuscita del rituale cosa che se avveniva esso era oggetto di una profonda venerazione.
Se invece il corpo presentava segni putrefattivi dopo aver compiuto un rituale di esorcismo la cripta veniva nuovamente sigillata e anche se quel monaco non poteva essere considerato un Buddha veniva ugualmente ammirato e rispettato per il percorso sostenuto.
La pratica dello sokushinbutsu è di origine cinese, ma fu praticata da diversi dottrine buddiste in tutto il sud-est asiatico dove la shugendō (pratica spirituale che fonde antichi riti sciamanici shintoisti con le dottrine e i rituali del buddhismo esoterico) fu una delle maggior esponente di tale rituale.
Se pur praticata nel corso del tempo da migliaia di monaci solo 24 di questi corpi sono giunti ai giorni nostri, la massima concentrazione di questo rituale si ebbe in Giappone e in particolar modo nella Dewa-no-kuni (l’attuale Yamagata-ken) specialmente nei pressi di Haguro-san, Gassan e Yudono-san che prendono il nome di: 「Dewa Sanzan」 considerate le tre montagne sacre dallo shintō e in particolar modo care al dottrina shugendō. Proibita dal Meiji-jidai (1868-1912) l’ultimo caso accertato di sokushinbutsu fu comunque registrato nel 1903.
Presso il Ryūsuiji Dainichi-bō (un tempio buddhista) situato a Tsuruoka-shi nella Yamagata-ken è conservato il corpo di Daijuku Bosatsu Shinnyokai Shōnin (1687-1783) un monaco che realizzò il rituale all’età di 96 anni, mentre sempre i corpi di altri monaci giapponesi si trovano in alcuni templi della Yamagata-ken dove la pratica era più frequente. Lo sokushinbutsu è ampiamente citato nel romanzo 「Kishidanchō-goroshi」 (conosciuto in Italia con il titolo di: L’assassino del commendatore) del 2017 scritto dal grande Haruki Murakami.